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Pay For Click vs Google



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[ 10 modi di perdere dati ] [ Alleanza MCI/Microsoft ]
Pubblicato da Sbavi il 15/12/2005 alle 00:00

ROMA - Davide sfida Golia. Un'azione legale di gruppo minaccia la principale fonte di ricavi di Google, il sistema pubblicitario comunemente denominato "pay per click", in cui gli inserzionisti pagano il motore di ricerca per il numero di visitatori arrivati sul proprio sito. Capofila della denuncia una piccola società americana, Advanced internet technologies (Ait), secondo la quale il meccanismo sarebbe spesso inquinato da imbrogli, i cosiddetti click fraud, che né Google né gli altri motori collaborano a svelare. Obiettivo dei querelanti, avere risarcimenti e ottenere maggiore trasparenza per prevenire le frodi. La decisione sull'ammissibilità della class action verrà presa in un'udienza fissata dal tribunale della California per il prossimo maggio.

"Il click fraud è lo sporco segreto dell'industria della ricerca", ha affermato qualche giorno fa Stefanie Olsen, esperta di tecnologia di Cnet, 'bibbia internet' del settore negli Usa. Il meccanismo messo a disposizione da Google permette agli investitori pubblicitari di posizionare i link ai propri siti in cima alle pagine di risultato della ricerca oppure di farli apparire in posizioni promozionali a fianco di articoli correlati. Ad esempio, se sto leggendo una pagina in rete che parla di viaggi, nelle posizioni pubblicitarie a fianco all'articolo appariranno inserzioni relative a pacchetti turistici o a voli scontati. E' così che Google, 1,5 miliardi di ricavi solo nel terzo trimestre 2005, realizza oggi la maggior parte delle proprie entrate. In questo modo gli inserzionisti acquisiscono traffico e nuovi utenti e pagano solo in ragione dei click ottenuti. Ma se un concorrente sleale vuole vanificare l'investimento pubblicitario, può mettere in piedi un sistema automatico che clicca sui link generati da Google. Così l'inserzionista paga per utenti che in realtà non esistono, e l'investimento pubblicitario non ha alcun riscontro reale.

Qualcosa del genere sarebbe accaduto ad Ait, che aveva acquistato pubblicità di questo tipo per somme ingenti. "Siamo investitori di lunga data e qualcosa in tutto il processo non funziona", sostiene Alex Lekas, vicepresidente di Ait. "Se si analizza il traffico verso il nostro sito, ci sono alcuni errori che balzano all'occhio". L'azienda avrebbe smascherato l'imbroglio dotandosi di propri strumenti in grado di verificare il traffico, dai quali sarebbe emerso che click corrispondenti a un investimento pari a mezzo milione di dollari non sarebbero stati di utenti veri ma di uno o due computer programmati per ripetere l'operazione in automatico. Secondo l'accusa Google non avrebbe fatto tutto quel che sarebbe stato in suo potere per evitarlo, oppure ancora peggio l'avrebbe saputo e avrebbe taciuto perché beneficiava di quanto stava accadendo. Al momento della denuncia la società di Mountain View ha commentato la vicenda affermando che "la causa non ha alcun fondamento e ci difenderemo con forza".

Al di là delle potenziali richieste di risarcimento di massa che potrebbero arrivare a Mountain View se il giudice riconoscesse le accuse e la richiesta di class action, la questione di fondo è la credibilità e la trasparenza del sistema. Oggi Google riconosce validità per i pagamenti solo alle proprie statistiche, e non fornisce agli inserzionisti alcun modo per verificare gli ip, ovvero gli identificativi numerici dei computer che hanno generato il traffico pubblicitario. Non solo, ma in molti casi di controversia, inserzionisti e siti che ospitavano gli annunci si sono visti opporre dalla società il niet a ulteriori chiarimenti con la giustificazione di non poter rivelare dettagli sul funzionamento della tecnologia che potrebbero mettere a rischio l'algoritmo proprietario, ovvero il meccanismo segreto di calcolo, su cui si fonda una parte sostanziale della fortuna della società. Una giustificazione che ora molti sembrano non essere più disponibili ad accettare.


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